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Malattie spaventose che ogni tanto spuntano fuori

Ho appena scoperto della morte di una persona della mia città a causa di una malattia rara e fatale.

La città è piccola e le fonti di informazioni (o pettegolezzi) sono estetiste, parrucchieri, salumieri. Da una di queste figure ho saputo che la persona in questione è morta per una malattia prionica che ha causato un’encefalite letale nel giro di poche settimane.

Erano anni che non sentivo parlare di prioni. Da biotecnologa ho sempre considerato queste proteine molto speciali e, appunto, spaventose e affascinanti.


Ma cosa le rende così importanti e particolari?


Queste proteine sono in grado, in qualche maniera, di RIPRODURSI. Sono proteine naturalmente presenti nel nostro organismo, ma quando sono mutate possono diventare tossiche, soprattutto per il cervello. Fin qui tutto nella norma, senonché le proteine in questione possono modificare la forma (e quindi la funzione) di altre proteine prioniche (PrP) normali, che da funzionali diventano tossiche, una volta e per sempre. Quindi, esattamente come dei virus, si replicano e si comportano come un’infezione.

La cosa interessante è il fatto che una proteina possa riprodurre l’errore che si porta dentro, un stortura nella sua struttura, in una sua omologa normale e ben funzionante.


Alcune forme di malattia prionica sono davvero infettive, ovvero insorgono dopo l’ingestione della proteina prionica mutata dal cibo, come il kuru dovuto all’ingestione di cervelli umani o la malattia di Creutzfeldt-Jakob causata dal consumo di carni provenienti da bovini infetti, malati di encefalopatia spongiforme bovina (BSE).


Quando non è infettiva, la mutazione è già presente nel DNA della persona fin dalla nascita. Tale mutazione resta latente per anni senza produrre PrP malate, fino a quando, intorno ai 50 anni, inizia a farlo, con esiti devastanti. In pratica è come avere una spada di Damocle sulla testa da tutta la vita.


Parlando dei sintomi abbiamo un quadro spaventoso.


Le proteine causano la morte neuronale a causa del loro accumulo nel cervello e si formano veri e propri buchi (ecco perché “spongiforme”). In pratica, succede quello che ritroviamo nella malattia di Alzheimer: si accumula una proteina nel cervello, ma in questo caso tutto avviene in maniera molto più rapida. La persona inizia ad avere sintomi magari motori, poi magari perde l'uso della parola sempre più gravi, sia motori sia cognitivi (in base alle zone colpite) e può morire dopo poche settimane o, in alcuni casi, dopo circa due anni.

Si tratta di una malattia rara che conta 1 o 2 casi in 1 milione di persone ogni anno e non esistono cure.

Ho deciso di dare un’occhiata su pubmed per aggiornarmi un minimo sulle direzioni che sta prendendo la ricerca sulle malattie prioniche.


Ho trovato un articolo che mi ha subito catturata in quanto parla di un aspetto per me importante, ovvero l’engagement del paziente come elemento chiave nella cura e nella prevenzione delle malattie, in questo caso la malattia da prioni (“Preventive pharmacological treatment in subjects at risk for fatal familial insomnia: science and public engagement”Forloni G, PRION 2022). L’articolo si occupa in particolare dell’insonnia fatale familiare, una malattia da prioni causata da una particolare mutazione (quindi di origine genetica e non infettiva) che ha come sintomo principale gravi disturbi del sonno, ma causa anche disturbi motori e intacca principalmente il talamo.

Il gruppo di Forloni ha condotto uno studio sulla prevenzione in un gruppo di persone a rischio di malattia, della durata di 10 anni. 10 tra i soggetti coinvolti erano portatori della mutazione e 15 erano non portatori, questi ultimi non erano a conoscenza del proprio status mutazionale.

Questo mi ricorda il tema della scelta personale di conoscere di essere portatori di una malattia che sicuramente ci colpirà (come la malattia di Hungtinton) o molto probabilmente lo farà, come la malattia da prioni in questione.

Chi vorrebbe sapere di avere questo (atroce) destino? E come si riesce a vivere dopo?

Dal mio punto di vista è meglio non sapere, anche perché c’è poco da fare, almeno fino ad oggi, per prevenire o prepararsi. Ma ecco che questo studio cerca proprio di scoprire se queste persone che sanno di essere comunque “a rischio” (probabilmente perché hanno avuto casi in famiglia) possono dare un contributo alla prevenzione della malattia. Vediamo come.

Lo studio prevede di trattare i soggetti con un farmaco per 10 anni e valutare gli effetti sull'insorgenza della malattia e sui sintomi. Il trattamento in uso è un antibiotico, la doxiciclina, una tetraciclina con un profilo di sicurezza molto buono. I pazienti portatori della malattia hanno assunto doxicillina tutti i giorni, mentre i non-portatori hanno assunto un placebo (ignari) e hanno subìto gli stessi monitoraggi dei primi.

Tutto questo per 10 lunghi anni.

Lo studio si è concluso a dicembre 2023, ovvero pochi giorni fa! Infatti non ho ancora la pubblicazione dei risultati in mano. Ma monitorerò di sicuro gli autori perché mi interessa come va a finire.

L’idea di poter prevenire, o anche solo ritardare o mitigare, una malattia tanto terribile è incredibilmente entusiasmante.


Qualunque sarà il risultato questo studio indica una strada fondamentale nella ricerca clinica che è quella di un coinvolgimento più importante del paziente. O meglio della persona, che non è identificabile solo con la sua malattia, o disturbo, ma è, appunto, una PERSONA e va considerata anche negli aspetti emotivi, etici, spirituali se si vuole che collabori con i ricercatori.

Teniamo conto che le persone di questo studio hanno dovuto assumere un farmaco per 10 anni, senza sapere se è o sarà mai efficace, senza sapere se avrà effetti avversi (anche se è noto per averne pochi, non si può sapere), senza sapere se sono davvero portatori della mutazione nella PrP. Mica poco!

Inoltre si sono sottoposti a esami periodici, come prelievi di sangue e test neurologici, per valutare la presenza della malattia. Una malattia terribile che deteriorerebbe la loro mente, quindi il loro io, nel giro di poco. Una malattia che dà pochi segni di preavviso, ma quando arriva procede inesorabilmente.

Lo trovo uno studio meraviglioso che fa sperare nel futuro della medicina e anche della ricerca clinica.



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